La tecnologia svolge un ruolo importante nella nostra vita quotidiana. Oggi siamo tutti costantemente connessi, attraverso i più disparati device. Dallo smartphone, al tablet, al personal computer, siamo online quasi 24 ore al giorno.

Tutto ciò ha un’influenza significativa sui nostri comportamenti e abitudini. Inclusa la modalità di fare acquisti.

E nelle vendite si sa: chi è più vicino al cliente, vince! Per questo il principale obiettivo della maggior parte delle aziende è diventato l’engagement con i propri clienti: creare una connessione profonda, basata sulle emozioni per far nascere una relazione di lungo-medio periodo con gli utenti, in grado di creare profitti e soprattutto fedeltà.

Oggi più che mai le aziende puntano ad avere dei clienti che siano dei sostenitori del brand – i cosiddetti ambassador, che ne parlino bene all’interno della propria cerchia e vi ripongano fiducia.

Piuttosto che basare la strategia di vendita solo su sconti, promozioni e offerte speciali. Queste tecniche potranno avere effetto nel breve periodo ma non sono in grado di contribuire alla creazione dell’engagement, di una conversazione e men che meno di una fidelizzazione con il target di riferimento.

Una relazione basata solo sul prezzo non è sana, non aumenta la partecipazione del cliente alle attività del brand e non sarà mai in grado di far prosperare l’azienda.

Piuttosto, una relazione col brand basata solo sul prezzo finisce per attirare solo clienti opportunisti, alla costante ricerca della miglior offerta.

Lo conferma Gallup con la sua ricerca di mercato Gallup’s CE3™ – B2C Customer Engagement Meta-Analysis:

“I marchi in grado di coinvolgere in modo efficace i propri clienti ottiengono

il 63% in meno di attrito col consumatore e

il 55% in più di spesa media”

 

La ricerca ha dimostrato l’esistenza di una relazione positiva tra l’engagement del cliente e i risultati ottenuti dall’azienda. Sia in termini di unità commerciale complessiva (filiali, store e simili) che a livello di singola attività.

Il sondaggio ha raccolto dati da più di 24.000 unità aziendali, interpellando quasi 65.000 clienti scelti tra 9 dei principali settori economici distribuiti su 12 mercati diversi.

I clienti intervistati sono stati suddivisi in tre categorie:

  1. Pienamente coinvolti,
  2. Indifferenti,
  3. Demotivati

Secondo Gallup, i clienti appartenenti alla prima categoria sono la principale fonte di profitto per l’azienda e i più propensi a instaurare una relazione duratura nel tempo col brand.

Il motivo? Si sentono compresi e soddisfatti dall’azienda, sentono di poterci contare, ne vanno fieri e la ritengono su misura per loro.

Ad esempio, sulla base delle risposte date degli intervistati, chi sente di avere un alto livello di engagement con l’hotel dove soggiorna tende a spendere il 46% in più ogni anno rispetto a coloro che si sentono demotivati rispetto allo stesso hotel.

Lo stesso vale per i servizi bancari: i clienti coinvolti fanno guadagnare il 37% in più ogni anno rispetto a quelli demotivati.

Inoltre, la ricerca sottolinea la notevole differenza di comportamento nei confronti del brand tra la prima categoria d’utenti – pienamente coinvolti – e la seconda – indifferenti.

Un cliente semplicemente soddisfatto non avrà lo stesso valore di uno che reputi alto il suo livello d’engagement nei confronti dell’azienda. Motivo per cui i classici programmi di fidelizzazione del consumatore non funzionano.

 

“Solo il 50% degli utenti coinvolti nelle operazioni di incentive e loyalty

è realmente attivo,

il 20% pur avendo ottenuto il premio non lo riscatta.”

Fonte: Bond Loyalty Report

 

Ma come si misura l’engagement dei propri utenti?

 

Una delle metriche più importanti per misurare il coinvolgimento degli utenti è il DAU/MAU: il rapporto tra gli utenti attivi ogni giorno (DAI – daily active users) e gli utenti attivi ogni mese (MAU – monthly active users).

La sua popolarità è iniziata da quando Facebook ha deciso di utilizzarla per valutare le applicazioni presenti sulla propria piattaforma.

I valori di riferimento rispetto al coinvolgimento dell’utente:

DAU/MAU < 20% basso livello d’engagement,

DAU/MAU > 20 % indica un buon livello d’engagement,

DAU/MAU > 50% ottimo livello d’engagement

E quali sono i fattori che influenzano il rapporto DAU/MAU?

Flurry, azienda internazionale che si occupa di mobile analytics e advertising, ha realizzato uno schema che esemplifica in modo puntuale il grado di fedeltà di clienti per diverse categorie di bene e servizi.

Lo schema distingue 4 diversi quadranti, all’interno d’ognuno i rispettivi valori di DAU/MAU dei servizi/beni a seconda degli elementi che li caratterizzano.

 

engagement retention frequency

Fonte: Flurry

 

Infatti, Flurry ci fa notare che ogni servizio/bene può avere nelle sue metriche un elemento naturale e uno culturale.

Ad esempio, servizi come la comunicazione sono naturalmente ad alta frequenza d’utilizzo, basti pensare all’email, ai social network o alle chat. Mentre altri saranno per natura utilizzati meno frequentemente: un software fiscale per il pagamento delle tasse verrà utilizzato una sola volta l’anno, così come l’acquisto di maschere per Halloween.

Quest’ultima categoria di prodotti non sarà di certo poco adatto al mercato perché acquistato una singola volta l’anno. Semplicemente sono dei prodotti e servizi che non avrebbe senso utilizzare quotidianamente.

La conclusione secondo Flurry: un alto DAU/MAU non può essere ottenuto da tutte le categorie di beni e servizi. Non ha senso mettere sullo stesso piano diverse categorie, le metriche vanno interpretate senza dimenticare la tipologia del proprio business.

 

Retail disruption: come la tecnologia sta cambiando i nostri acquisti

 

Se l’impatto della tecnologia è stato forte riguardo l’engagement degli utenti, quello rispetto la realtà degli acquisti non è certo da meno!

Deloitte, nella ricerca Disruption in the retail industry – Managing strategic risks (2015), analizza lo stato attuale dei cambiamenti avvenuti e ancora in corso, ponendo l’attenzione su quanto il cambiamento sia in costante crescita.

L’insieme dei cambiamenti tecnologici, sociali, politici, economici e ambientali danno origine a vari pericoli che minacciano e modificano i modelli preesistenti.

Il comportamento del consumatore è tra questi: cambiano le sue preferenze, cambia il come, quando e dove fare acquisti. Così la temuta disruption non risparmia il settore retail.

Nuovi modelli di business trovano terreno fertile grazie a questi cambiamenti mentre quelli classici vedono davanti a loro un futuro sempre più incerto. Riuscire a destreggiarsi tra l’affermazione degli e-commerce, le nuove modalità di pagamento, la sharing economy: una nuova e totalmente diversa relazione consumatore-venditore.

Per capire meglio il fenomeno della retail disruption, basti pensare alla crescita esponenziale degli acquisti online di cui tutti siamo in qualche modo spettatori e attori.

Lo studio Dressed for digital – the next evolution in fashion marketing realizzato dal BCG (Boston Consulting Group) e ZMS (Zalando Marketing Services) afferma che entro il 2020, il 25% delle vendite sarà online, a fronte del 20% attuale.

Ciò non significa che il punto vendita fisico come lo conosciamo oggi scomparirà, ma dovrà trasformarsi e migliorarsi. Assumerà anzi un ruolo da protagonista nella creazione di una retail experience integrata tra ambiente digitale e fisico.

I rivenditori devono essere in grado di adattare le loro strategie sulla base delle abitudini, dei comportamenti e delle preferenze dei propri clienti.

I clienti si aspettano di vedere anticipati e soddisfatti i propri bisogni, praticamente in tempo reale.

Le aspettative non solo crescono ma diventano più complesse: il cliente richiede un’esperienza agevolata, integrata sia nell’ambiente offline che online, senza interruzioni ma in grado di ispirarlo, d’accompagnarlo e di soddisfare i suoi bisogni.

Le aziende devono saper coinvolgere gli utenti: incoraggiarli a intraprendere il percorso che hanno costruito per loro e creare engagement col proprio brand.

La strategia vincente prevede la creazione dei giusti spazi per il cliente: lasciarlo libero di interagire con il proprio brand nel momento in cui decide di farlo. Senza forzature, senza l’obbligo d’impegnarsi se non si sente pronto a farlo.

Questi percorsi, aperti e allo stesso tempo guidati, rendono armonica l’esperienza d’acquisto.

E un’esperienza interessante per il cliente sarà anche in grado di aumentare le vendite e i profitti dell’azienda.

Altro fattore da non sottovalutare è la personalizzazione dell’esperienza d’acquisto: l’approccio di massa è ormai superato da tempo.

Ci spiega il motivo di questa tendenza Jessica Distler, esperta di moda e partner managing director di BCG: maggiore sarà il grado di personalizzazione della comunicazione, maggiori saranno retention e engagement dei clienti.

Lo studio Dressed for digital – the next evolution in fashion marketing evidenzia come l’online retail offra maggiori opportunità d’approccio ai brand, tra cui la personalizzazione.

Attraverso delle strategie digitali personalizzate, le vendite hanno un incremento del 15%!

Anche se tra il dire e il fare le aziende non mostrano la giusta coerenza: il 76% delle imprese riconosce il potenziale di un’esperienza personalizzata ma solo il 13% attua realmente delle strategie ad personam (e-mail, social, screen adv, ecc.). Un gap da colmare il prima possibile.

 

Gamification: come aumentare l’Engagement degli utenti

 

In una realtà che di costante ha solo il cambiamento, la retail disruption può essere fronteggiata costruendo e coltivando un significativo livello d’engagement con i propri clienti. Puntando su una relazione positiva di lungo periodo.

E quale miglior modo per entusiasmare i propri clienti se non la gamification?

L’utilizzo delle leve proprie del gioco che premiano il giocatore quando gioca – e acquista – il proprio brand si sono dimostrate tra le più efficaci. Naturalmente se utilizzate nel modo corretto.

 

“I clienti con alto livello d’engagement

hanno un impatto significato

sul risultato finale dell’azienda”

Alex Gault – DeepMarkit

 

L’engagement è la chiave per differenziare la propria azienda dai concorrenti, per distinguersi in modo positivo tra l’infinità di scelte con cui l’utente entra in contatto ogni giorno.

La gamification contribuisce a aumentare l’engagement, trovando il modo di motivare, influenzare e soprattutto coinvolgere il sempre più esigente utente moderno.

Browers, direttrice dell’azienda Epsilon marketing, sostiene che la gamification sia uno strumento di valore per le aziende poiché riesce a far sentire parte dei programmi d’engagement i clienti, facendo leva sulla stessa natura umana. La naturale tendenza delle persone alla socializzazione, all’apprendimento, alla competizione e al conseguimento d’obiettivi è il principio base delle strategie di gamification.

Inoltre, sottolinea Browers, l’utilizzo corretto della gamification in un programma fedeltà aziendale dovrà essere in grado di portare un vantaggio ben preciso: le interazioni col brand saranno più semplici, più istruttive e più divertenti.

 

 

Con la gamification il customer journey segue le orme del player journey

 

L’utilizzo della gamification nella creazione del customer journey sarà in grado di aumentare il livello d’engagement attraverso le stesse logiche valide per il game design.

Emy Jo Kim, game designer, scrittrice e imprenditrice a capo dell’azienda Game Thinking, illustra quanto sia importante realizzare un percorso di gamification che tenga conto del percorso dell’utente nel tempo. Infatti, la customer journey dovrà essere in grado di adattarsi alla crescita d’esperienza e al suo livello di competenza dell’utilizzatore.

Chi si approccia all’applicazione per la prima volta non potrà avere lo stesso grado di conoscenza di chi la utilizza da più anni, giusto? Quindi sarà essenziale tenere conto di tali variabili nella formulazione di un piano di gamification journey per il cliente.

 

player journey

Fonte: Amy Jo Kim

 

Secondo Amy Jo Kim, lo schema del player journey raggruppa i giocatori in 3 categorie principali:

  1. Novellino – fase d’inserimento,
  2. Abituale – fase di creazione dell’abitudine,
  3. Appassionato – fase della padronanza

Il livello d’engagement va tenuto alto nel tempo, sulla base della tipologia di giocatore e delle sue caratteristiche.

La bravura di chi realizza il sistema di gamification sta nel riuscire a trovare il giusto equilibrio tra la quantità di sfide da affrontare, le informazioni d’assimilare e le abilità che il giocatore ha acquisito fino a quel momento.

Le meccaniche di gioco utilizzate devono essere plasmate in modo da riuscire ad attrarre e supportare tutte e tre le categorie d’utente, sia nel breve che nel lungo periodo.

Dal momento il tempo gioca un ruolo cruciale nell’esperienza del giocatore, vediamo quali sono gli elementi che Amy Jo Kim reputa essenziali per ogni fase.

L’utente novellino avrà bisogno d’imparare i fondamentali: per lui ogni elemento del gioco rappresenta una novità con cui relazionarsi. Avrà quindi bisogno di essere accolto, con una guida e/o un tutorial, di avere degli obiettivi, di poter conoscere i propri progressi e venire ricompensato con dei premi. Inoltre, sarà bene fornirgli, seppur con moderazione, alcune motivazioni estrinseche (riconoscimenti esterni di natura materiale o immateriale)

L’utente abituale invece avrà bisogno di contenuti sempre nuovi e interessanti, di sfide e attività che siano in grado di tenerne alto l’engagement nel tempo. Un giocatore che gioca spesso vuole avere modo d’incontrare e relazionarsi con altri utenti, ponendo le basi per la creazione di una community. Inoltre, cerca un significato d’attribuire alla sua presenza lì, costruendosi le proprie motivazioni intrinseche (motivazione interna dovuta al divertimento, alla sfida del compiere l’azione in sé, senza bisogno di ricompense esterne).

L’engagement dell’utente esperto sarà alimentato da leve quali l’esclusività – ad esempio contenuti da sbloccare, riservati a una stretta cerchia di privilegiati – il riconoscimento e la possibilità d’avere un impatto significativo sul sistema e le sue componenti, altri utenti inclusi. Insomma, vuole sentirsi diverso dalla massa e essere contraddistinto da tutta la community come guru e punto di riferimento.

 

community time pattern influence

Fonte: Amy Jo Kim – Gamification Workshop 2010

 

All’interno di un sistema di gamification, non sono solo beni e servizi ad avere un ciclo di vita ma anche le community nate al suo interno.

Il grafico elaborato da Jo Kim ci mostra come il tempo e il grado d’influenza all’interno del sistema siano interdipendenti tra loro.

Lo scopo è quello di riuscire a realizzare dei sistemi sociali in grado di individuare e influenzare i giocatori che siano portatori di un alto valore all’interno del proprio sistema di gamification.

Descrive l’argomento in modo più approfondito il modello di Millington con le 4 fasi del ciclo di vita della community:

  1. Creazione – il momento in cui la community prende forma, le attività sono semplici e dal ritmo lento. Questa fase dovrebbe durare al massimo 9 mesi, un periodo più lungo potrebbe indicare la presenza di problemi (troppi pochi utenti, elementi che allontanano i componenti);
  2. Organizzazione – in questa fase le cose iniziano a migliorare, aumenta il livello di coinvolgimento dei membri e, sebbene la community non sia ancora matura, la sua crescita ha già avuto inizio;
  3. Maturità – la community è diventata autosufficiente, gli utenti sono ormai co-creatori dei contenuti, le attività passano dall’essere individuali (micro-livello) a collettive (macro-livello);
  4. Mitosi – questa fase non si verifica sempre ma solo nel caso in cui la community diventi troppo grande e dispersiva per riuscire a continuare ad esistere come un singolo gruppo. L’effetto positivo potrebbe essere la creazione di alcuni “gruppi figli”: sub-comunità più piccole con degli obiettivi più focalizzati rispetto al “gruppo madre”.

 

Flow channel: la logica dell’engagement nella gamification

 

Ma in che modo la gamification riesce a tenere alto il livello d’engagement dell’utente? Possiamo trovare una risposta accurata nel concetto di flow definito dallo psicologo e ricercatore Mihaly Csikszentmihalyi nel suo libro Flow: the psychology of optimal experience.

La definizione di flow data dal famoso psicologo è la seguente:

“The flow is a highly satisfying psychological state involving:

clear objective, Intense need for concentration, lack of interruptions/distractions,

clear and immediate feedback on progress toward the goal, sense of challenge.”

Mihaly Csikszentmihalyi

 

Lo stato ottimale si verifica quando una persona ha un alto livello d’engagement rispetto un’azione, si sente totalmente immersa in quell’attività, sentendosi euforica e concentrata al massimo delle proprie capacità. Il livello di concentrazione è tale da portare a una perdita di consapevolezza di sé e della cognizione del tempo.

Quando una situazione è in grado di farci sentire nel flow channel, ci sentiremo così coinvolti ed efficienti da riuscire ad avere risultati d’alta qualità praticamente senza sforzo.

L’attività svolta con un così alto livello d’engagement e motivazione infatti non ci pesa affatto e il tempo trascorre in modo rapido e piacevole. Sia che si tratti di un’attività di svago o di lavoro.

 

flow channel

Fonte: Mihaly Csikszentmihalyi – “Flow: The Psychology of Optimal Experience”

 

Il grafico realizzato da Csikszentmihalyi rappresenta nel migliore dei modi il concetto di flow: la logica principale è il collegamento diretto tra la presenza di sfide crescenti nel sistema di gioco e l’engagement continuo dell’utente.

Questa tipologia di schema rappresenta il modo in cui si riesca a aumentare le proprie abilità e allo stesso tempo si raggiungano degli obiettivi significativi.

Il modo migliore per riuscire a mantenere i propri utenti nel flow è proporgli il giusto livello di sfide sulla base delle loro abilità. Ancora una volta la personalizzazione è essenziale per i giochi e le applicazioni di gamification.

Il giusto equilibro permette di non trascinare l’utente negli stati d’animo nemici dell’engagement: la noia e l’ansia.

L’utente entra in uno stato d’ansia quando le sfide sono nettamente superiori rispetto alle sue abilità, viceversa si troverà in uno stato di noia qualora queste non saranno minimamente all’altezza della sua capacità.

Raph Koster, autore del libro A theory of fun for Game Design, descrive l’esperienza di gioco, le cui meccaniche nelle applicazioni di gamification aziendali seguono le stesse dinamiche, come una piacevole macchina d’apprendimento. Il suo fascino deriva proprio dalle sfide e dalle opportunità da cogliere per ottenere ricompense e abilità.

Durante il processo di creazione di un gioco, di un’applicazione che utilizzi gamification o di un sito web, Amy Jo Kim individua quale principale punto d’interesse l’utente. Capire di cosa ha bisogno all’inizio del processo e ancor di più durante la sua evoluzione. Il cambiamento dell’applicazione deve andare di pari passo con quello dell’user experience. E le modifiche ne sono l’emblema fondamentale.

La gamification è in grado di supportare le realtà aziendali, dando loro modo di stare al passo con i cambiamenti richiesti da una realtà in continuo in movimento. Le sue logiche sono in grado di fare leva sull’engagement del cliente: le aziende avranno così in mano gli strumenti giusti per rimodellare il loro schema d’azione, senza restare travolte dalle tendenze disruptive in corso.

 

 

Parleremo della customer experience e di tante altre applicazione della Gamification al seminario HR Gamification – Milano 2019