L’ ecosistema delle startup e l’utilizzo di tecniche innovative, quale il growth hacking sono spesso ritenuti la soluzione al problema del basso livello di digitalizzazione delle imprese in Italia.
In particolare, il growth hacking è una tra le buzz word più diffusa nel mondo del lavoro, collegata alle nuove idee di startupper, spesso giovani e neolaureati.
Ma questo mondo così disruptive, digitale e “young” riesce anche a porre solide basi nella realtà “offline”, a portare valore per le imprese e il mondo del lavoro?
Partiamo dallo stato di digitalizzazione in Italia: il rapporto DESI – Digital Economy and Society Index – del maggio 2018 vede l’Italia al 25° posto tra i 28 Paesi d’Europa.
Lontana anni luce da Paesi simili quali Francia e Germania. E ferma alla stessa posizione occupata nel 2015.
La situazione non migliora se si considera il DMI – Digital Maturity Indexes – elaborato dall’Osservatorio Agenda Digitale, basato su 118 indicatori suddivisi in quattro aree: infrastrutture, pubblica amministrazione, cittadini e imprese.
Su 28 Paesi Europei, l’Italia è al 22° posto per gli sforzi fatti nell’attuazione dell’Agenda Digitale e al 25° posto per i risultati delle iniziative di digitalizzazione adottate negli ultimi anni.
All’interno di questo scenario desolante, la tendenza è quella di investire nelle startup, nel growth hacking e negli hackathon: le menti sono fresche, le idee innovative e le agevolazioni fiscali sono interessanti. Il che non guasta.
I dati della Relazione Annuale al Parlamento sullo stato d’attuazione e l’impatto delle policy a sostegno di startup e PMI innovative del 2017 parlano chiaro: il numero di startup costituite vede una crescita a due zeri – il 122% in più rispetto al 2014.
Ma quante startup sopravvivono abbastanza a lungo da generare reale valore?
Agevolazioni, sgravi fiscali, investitori, mentor: un apparato strutturato per favorire la nascita delle startup, soprattutto quelle innovative.
Ma poi quanti riescono a crescere e a trovare il proprio ruolo nella realtà aziendale?
Se analizziamo la situazione nel medio-lungo periodo, i numeri ci fanno riflettere sui risultati realizzati dalle startup nell’attuale situazione italiana.
Secondo i dati di Infocamere, il tasso di sopravvivenza delle startup innovative ha una media del 95% a due anni dalla costituzione, il numero di cessazioni aumenta su periodi che vanno oltre i tre anni.
Ad esempio, per le startup costituite nel 2013 si registra un tasso di sopravvivenze dell’89,3% nel giugno 2017, con cessazioni pari a circa il 10%.
Resta intorno al 10% il tasso di sopravvivenza a quattro anni delle startup costituite nel 2012.
Il quadro relativo a utili e produzione delle startup, sempre secondo Infocamere, registra un utile inferiore al 43% nel trienno 2015-2017 e il rispettivo valore aggiunto è di 33 centesimi di euro.
Ma il dato più importante da considerare è certamente l’exit della startup: una delle modalità migliori per la verifica del successo ottenuto, spesso obiettivo principale sia di coloro che la costituiscono che di chi decide di investire nell’impresa.
Secondo la ricerca dell’Osservatorio Startup Hi-Tech 2018, sono solo 8 le startup che hanno fatto exit in Italia in quell’anno.
“Le startup maggiormente deputate ad avere successo sono quelle che rispondono a un reale bisogno del mercato con innovazioni disruptive”
Conti – business developer Eit Digital
I dati confermano l’ipotesi che creare una startup è più semplice che farla sopravvivere nel medio-lungo periodo e farle avere successo.
Solo quelle davvero innovative e utili al mercato riescono ad ottenere un exit di valore.
Contestualizzando le 8 exit rispetto al totale delle startup esistenti, ci si rende conto di quanto siano una goccia nell’oceano: al momento sono quasi 10.000 le startup registrate sul territorio italiano.
Infatti, secondo i dati di Registroimprese.it – sito ufficiale della Camera di Commercio – in Italia ci sono 9797 startup innovative (dati estratti in data 21 gennaio 2019).
La maggior parte in Lombardia, più di 2400, e nel Lazio, più di 1000.
Ma queste startup creano davvero valore per l’economia italiana?
Secondo un articolo sul tema redatto dal Il Sole 24 ORE, il valore creato dalle startup è basso. Davvero troppo basso.
Dall’analisi dei dati forniti dalle Camere di Commercio d’Italia:
- Poco più di 500 startup superano i 500.000 euro di fatturato,
- Più di 7.700 startup si trovano in fase seed – fase imprenditoriale in cui il servizio/prodotto è ancora in corso di creazione e si sta redigendo il business plan,
- Il capitale di 2150 startup vale meno di 5.000 euro,
- Il valore di produzione di 3667 startup è inferiore ai 100.000 euro
Growth hacking: la formula più utilizzata dalle startup italiane
Il termine growth hacking è una delle buzz word del momento nel digitale. Lo sentiamo spesso nominare, soprattutto in relazione a startup e innovazione, ma cosa significano davvero queste due parole?
Per farci un’idea più precisa, partiamo proprio dalla prima definizione creata dal suo ideatore, Sean Ellis, già nel 2010:
“Il growth hacking è un processo di rapida sperimentazione
attraverso una serie di canali di marketing
per individuare i modi più efficaci per far crescere un business.”
Sean Ellis
Sean Ellis, oltre che esperto di marketing per startup, è il primo growth hacker. A lui si deve infatti, oltre alla nascita della parola growth hacking, le linee guida di tale processo.
Il motivo della sua nascita? Ellis stava cercando una figura in grado di sostituirlo al lavoro. Ma nessuno dei curriculum ricevuti era sufficientemente rilevante essere ritenuto in grado di fare le sue veci nella sua startup.
I candidati avevano le carte in regola, erano esperti di marketing con brillanti carriere alle spalle ma nessuno era ritenuto sufficientemente equipaggiato per il mondo delle startup.
Così Ellis ha deciso di modificare l’annuncio di lavoro, inserendovi il termine growth hacker: la persona che cercava doveva prima di ogni altra cosa essere focalizzata sulla crescita della startup di cui faceva parte. Da qui il termine growth.
Apparentemente il growth hacking sembrerebbe utile per qualsiasi azienda, ma allora perché se ne sente parlare per lo più in associazione alle startup?
Sean Ellis, il cui focus principale era la crescita dell’impresa, riteneva il growth hacking l’approccio migliore per le startup: qualcosa di diverso e unico, in grado d’unire nuove tecniche e diversi modus operandi in tempi davvero stretti.
Il tempo è un fattore essenziale per le startup: devono essere in grado di evolversi in modo rapido, creare la loro base di clienti e iniziare a guadagnare per poter sopravvivere all’interno di un mercato fortemente concorrenziale. Dove la crescita delle startup deve essere misurabile agli occhi d’investitori e sostenitori.
Qual è il motivo di tassi di sopravvivenza ed exit così bassi?
Sebbene il growth hacking in teoria faccia gioco alla crescita rapida delle startup, i numeri e i risultati italiani ci portano a pensare a una performance scarsa nel medio-lungo periodo.
Come si può pensare di risolvere il problema della digitalizzazione con il growth hacking quale base dello sviluppo di una startup se poi nel 60% dei casi non riescono a generare utili? E se meno dell’1% delle startup realizza un exit?
Quali sono i reali benefici di un approccio così disruptive?
Di certo sarebbe bene tenere in conto l’incontro tra due mondi ancora troppo distanti tra loro in Italia:
- La nuova generazione di growth hacker e startup dall’approccio disruptive
- La vecchia generazione offline con esperienza sul campo reale
Spesso, troppo spesso, questi due mondi non comunicano tra loro: la nuova generazione da un lato produce innovazione e tecnologia in surplus rispetto a quella di cui le aziende hanno bisogno nel mondo reale, dall’altro lato la vecchia generazione pensa di poter restare ferma in un mondo solo offline, senza rendersi conto che è una realtà destinata a estinguersi in fretta.
“Il valore di un’idea sta nel metterla in pratica.”
Thomas Edison
Ciò che spesso manca è una soluzione in grado di creare un dialogo positivo tra i due mondi, di riuscire a implementare le idee innovative in un metodo realmente eseguibile, assegnandogli un asset fisico all’interno della realtà aziendale.
Trovare un punto d’incontro tra i codici del growth hacking delle startup e gli elementi dei processi nelle aziende fisiche.
La gamification, se ben utilizzata e strutturata, può fare da ponte stabile tra le due realtà: fornendo il metodo per eseguire in modo pratico le idee più innovative.
Incentivando la digitalizzazione ma in modo realistico, senza necessariamente stravolgere totalmente i processi aziendali. Fornire gli strumenti necessari a guardare a uno sviluppo futuro tecnologico ma realistico.
Un esempio pratico: la modalità di social recruitment bottom-up sviluppata da Whappy.
Attraverso un’applicazione di gamification i dipendenti di un’azienda hanno modo di segnalare al personale HR dei nominativi ritenuti validi per le posizioni lavorative vacanti in azienda.
I benefici? Il dipendente diventa corresponsabile della scelta perciò si impegnerà a trovare chi ritiene non solo capace a svolgere le mansioni ma anche adatto all’ambiente lavorativo preesistente. Un elemento propenso e facilitato nell’integrazione di gruppo.
Lo stesso dipendente si vede ricompensato per la sua propositività dall’azienda e il reparto HR riceve un significativo aiuto nella ricerca di nuove figure meritevoli. Riducendo nettamente il senso di “imposizione dell’alto” – top down – del nuovo arrivato in azienda.
Ma in Italia le startup sono poi davvero così innovative?
La legge italiana parla chiaro in termini di innovazione e startup.
Secondo gli articoli 25 e 32 del D.l. n. 179 del 2012, i requisiti necessari per catalogare un’impresa come startup innovativa sono:
- La startup è costituita da non più di 60 mesi dalla data di presentazione della domanda e svolge attività d’impresa,
- Ha sede principale dei propri affari e interessi in Italia,
- La produzione annua totale non deve superare i 5 milioni di euro a partire dal secondo anno,
- Non distribuisce né ha distribuito utili,
- Ha come oggetto sociale esclusivo o prevalente prodotti/servizi innovativi ad alto valore tecnologico,
- Non è stata costituita dalla fusione, scissione societaria o cessione d’azienda,
- Le spese in R&S sono maggiori o uguali al 15% del costo/valore totale della produzione oppure i 2/3 della forza lavoro sono laureati magistrali oppure la startup è titolare di uno specifico brevetto
Ciononostante, i database delle Camere di commercio italiane hanno rilevato che ben 2007 startup “innovative” non hanno indicato un sito web, nonostante si dichiarino in possesso di tutti i requisiti necessari a rientrare nella categoria dell’avanguardia tecnologica.
Anche i dati del report Startup SEO 2017, realizzato da Instilla in collaborazione con Nuvolab, SpazioDati, Semrush, Emil Abirascid, confermano lo stato poco chiaro della digitalizzazione delle Startup in Italia.
Delle 7568 imprese iscritte nel registro come startup innovative a luglio 2017, solo 3760 (il 49,7%) avevano un sito funzionante a settembre 2017:
- più di un quarto delle imprese non ha dichiarato di avere un sito,
- più del 20% di chi dichiara di avere un sito, in realtà ha un sito non funzionante
- quasi il 90% dei siti web funzionanti è anche ottimizzato per la visualizzazione da smartphone,
- i siti con una buona velocità di caricamento da mobile sono però poco più del 30%,
- meno di 100 startup innovative ha un sito che rispetti i parametri base per una buona SEO
Probabilmente la possibilità di poter autocertificare i requisiti della propria startup al fine di catalogarla come innovativa non è il modo migliore per avere un alto livello di reale innovazione tecnologica. Soprattutto in vista delle agevolazioni riservate a questa speciale categoria d’impresa in Italia.
“Nella sezione speciale del Registro delle imprese dedicata alle startup innovative
ci sono anche aziende che di innovativo non hanno nulla:
per snellire le pratiche di accesso si è giustamente
scelta l’autocertificazione dei titolari delle aziende.
In effetti l’elenco andrebbe pulito.”
Marco Bicocchi Pichi, presidente di Italia Startup – Business Insider Italia
Come le startup e le aziende italiane possono affrontare la sfida della digitalizzazione
La digitalizzazione in corso può rappresentare sia un’opportunità che una sfida per startup e aziende: l’importante è essere in grado di tenere conto non solo della parte teorica, ma anche di quella pratica.
È importante che il personale sia realmente formato e preparato al fine di cogliere le occasioni offerte, senza lasciare nulla al caso.
Bisogna essere in grado di colmare i gap di conoscenza pratica che esistono nelle startup, spesso composte da studenti o neolaureati, con dei sistemi aziendali strutturati.
Se l’esistenza di tali lacune è legittima, non lo è la mancata reazione ad esse e la proattività nel trovare il modo di superarle.
Il giusto mindset nel mondo digitale è la base da cui partire per imprese e startup di successo: riuscire a portare un modello di cambiamento aziendale che sia vincente per clienti e dipendenti.
Prestando particolare attenzione ad aspetti del modello aziendale quali:
- il modello di business basato sull’esperienza,
- la gestione e la lavorazione dei big data per la personalizzazione,
- l’orientamento employee e customer-centric,
- le competenze digitali sia verticali che orizzontali
Parleremo di come la gamification possa creare valore per l’impresa e il cliente, insieme ad altri temi dedicati alle industrie digitali al seminario HR Gamification – Milano 2019.